La nuova proposta di direttiva europea sulla responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde vuole aiutare i consumatori a fare scelte rispettose dell’ambiente e incoraggiare le aziende a offrire loro prodotti più durevoli e sostenibili. Ma la strada è ancora lunga. Con Daniele Pernigotti guardiamo da vicino le attuali norme che regolano prodotti e processi, sia sull’inventario dei gas serra, sia sulla credibilità e attendibilità delle dichiarazioni di imprese, istituzioni e brand, per evitare il greenwashing.
Sempre più aziende fanno dichiarazioni di Carbon Neutrality e di sostenibilità, di impegni teorici e analisi di dettaglio per conseguire “Net Zero Emission” ovvero le emissioni zero nette rispetto alle attività conseguite a livello anche di sua filiera. E sempre più spesso gli uffici acquisti di diversi settori richiedono ai propri fornitori informazioni legate alle politiche ambientali. Tutto questo dovrebbe essere supportato da dati scientifici solidi mentre molte volte sono ancora dichiarazioni lanciate nel vuoto che diventano terreno fertile per le cosiddette “verniciate di verde”. Si tratta di strategie di comunicazione molto diffuse tra aziende, organizzazioni e istituzioni che forniscono un’immagine ingannevole delle proprie attività evidenziando che le proprie attività sono positive sotto il profilo dell’impatto sull’ambiente ma la realtà è ben diversa.
Rapporto greenwashing 2023
Lo scorso maggio è stato presentato a Circonomìa – il Festival dell’economia circolare e della transizione ecologica giunto all’ottava edizione – il Rapporto greenwashing 2023, dedicato alle misure attive in Italia e nel mondo per contrastare le pubblicità e le aziende che dicono di essere “green” senza esserlo. Francesco Ferrante, Vicepresidente del Kyoto Club, informa che nel rapporto vengono evidenziati casi di greenwashing in Italia e nel mondo facendo luce sul contesto europeo e internazionale.
Secondo gli studi sono oltre 200 i brand che stanno facendo greenwashing e disorientano quindi il consumatore. “Tutti vogliono presentarsi come sostenibili, ma è importante farlo in maniera corretta”, ha spiegato Francesco Ferrante. Il dibattito è aperto e come rileva il Rapporto greenwashing 2023 ancora non c’è una vera e propria norma che regoli e persegua le pratiche scorrette, sebbene l’Autorità garante del mercato e della concorrenza abbia comminato multe anche ad aziende molto note. La nuova proposta di direttiva sulla responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde vuole aiutare i consumatori a fare scelte rispettose dell’ambiente e incoraggiare le aziende a offrire loro prodotti più durevoli e sostenibili.
Divieto di pubblicità ingannevole e dichiarazioni ambientali generiche
Il mandato negoziale approvato dal Parlamento europeo prevede di vietare l’uso di indicazioni ambientali generiche come “rispettoso dell’ambiente”, “naturale”, “biodegradabile”, “neutrale dal punto di vista climatico” o “ecologico”, se non sono accompagnate da prove dettagliate. Si prefigge anche di vietare le dichiarazioni ambientali basate esclusivamente su sistemi di compensazione delle emissioni di carbonio. Saranno vietate anche altre pratiche che possono trarre in inganno il consumatore come le dichiarazioni sull’intero prodotto se invece la dichiarazione è vera solo in modo parziale, ovvero per una parte di esso, o ancora affermare che un prodotto durerà un certo periodo di tempo o potrà essere utilizzato in una certa maniera e con un preciso e determinato livello di intensità se ciò non ha fondamento.
Parlare di carbon neutrality e greenwashing all’interno di un sistema produttivo iperconnesso come quello contemporaneo significa navigare nella complessità. Cosa deve fare quindi una azienda per evitare le finte tinteggiate di verde e contribuire anche a mantenere la propria reputazione?
Misurare l’impronta
A far chiarezza è Daniele Pernigotti, esperto di problemi legati ai cambiamenti climatici, consulente ambientale e scrittore. È delegato italiano a livello internazionale in diversi gruppi di lavoro dell’ISO sui sistemi di gestione ambientale e per lo sviluppo di numerose norme sui gas serra. In particolare ha guidato a livello internazionale lo sviluppo della ISO 14067, riferimento internazionale per il calcolo della Carbon Footprint dei prodotti (CFP). Recentemente Daniele Pernigotti è stato anche nominato coordinatore del Comitato Tecnico del CEN, l’ente di normazione europeo, sul cambiamento climatico.
“Quantificare l’impronta climatica di un prodotto – spiega – è il primo passo per poter dare concretezza e credibilità alle azioni che un’azienda compie per la gestione delle emissioni di gas serra legate all’intero ciclo di vita di un prodotto. Introdurre la CFP significa comprendere quali sono le fasi più critiche in termini di emissioni di gas serra e attuare quindi gli interventi più efficaci per ridurle”.
Carbon Footprint
La Carbon Footprint, ovvero l’impronta di carbonio che un’attività o un prodotto lascia sull’ambiente, si divide in due grandi filoni: quella relativa al prodotto e quella che si riferisce all’organizzazione. Applicare la CFP vuol dire in sostanza quantificare le emissioni che caratterizzano l’intero ciclo di vita del prodotto nella logica che Pernigotti esprime con la metafora “dalla culla alla tomba”. Si tratta di un calcolo che viene fatto sulla base di metodologie in grado di esprimere l’impatto climatico generato dal Prodotto o dal Servizio durante il suo intero ciclo di vita di LCA (Life Cycle Assessment).
Quanto alla Carbon Footprint di un’organizzazione, significa quantificare quanto una azienda emette nel suo complesso. In questo caso la logica interessante è quella della catena di valore. Spiega ancora Pernigotti: “Non si tratta di misurare solo le emissioni che escono per esempio da un camino, ma anche quelle indirette legate per esempio ai propri consumi di energia elettrica e, passando di livello, a quelle dell’intera filiera a monte e a valle dell’azienda in questione”. A questo punto la domanda è: come evitare il greenwashing?
Comunicare la verità (certificata)
“La norma per la verifica della Carbon Footprint adottata dagli enti di certificazione è la ISO 14064-3, che indica come effettuare le verifiche e le validazione. Questa norma entra nel dettaglio sul processo da seguire per confermare la correttezza dei dati di Carbon Footprint. Si parte dalla definizione degli aspetti contrattuali della verifica fino ad arrivare al documento finale che attesta la correttezza di quanto dichiarato dall’azienda. Consente così alle aziende di comunicare con la massima serietà il proprio impegno”.
La norma consente quindi alle aziende di quantificare le proprie emissioni, attuare le contromisure e diffondere dati verificati. A fronte di una crescente e diffusa sfiducia però, si è reso necessario introdurre una sorta di ulteriore “certificato di verità” delle dichiarazioni pubbliche. “Qui si passa a un livello superiore che riguarda la fase di accreditamento. Si tratta di una nuova norma ISO che è la 17029. Quindi le due norme si sommano: ISO 14065 e lSO 17029 e sono quelle specificatamente dedicate a questo tipo di accreditamento”.
La prima riguarda appunto l’inventario dei gas serra, mentre la seconda regola la credibilità e l’attendibilità delle dichiarazioni delle imprese, delle istituzioni e dei brand. “Questo viene eseguito a livello nazionale e qui in Italia, ente di riferimento è ACCREDIA. Oggi è diventato strategico individuare dei meccanismi per verificare la credibilità e l’attendibilità delle dichiarazioni delle imprese, delle istituzioni e dei brand in cui poter riporre fiducia”.
Accreditamento e verifica: la sfida della credibilità aziendale
L’accreditamento agisce dunque come processo di verifica delle informazioni dichiarate, definite “claim”, e di conformità rispetto alla norma. Le caratteristiche devono essere misurabili in un preciso momento, oppure previste e attese nel futuro. Report, dichiarazioni, asserzioni, programmi, grafici, statistiche, ecc. possono quindi rientrare in questa classificazione. Lo scopo è quello di misurare l’esattezza e la conformità dei claim sulla base di verifiche o validazioni, che possono essere così definite:
- Verifica: conferma di un claim, attraverso l’esibizione di un’evidenza oggettiva, che dimostra che specifici requisiti sono stati soddisfatti – conferma di veridicità;
- Validazione: conferma di un claim, attraverso l’esibizione di un’evidenza oggettiva, che dimostra che i requisiti relativi all’utilizzo o all’applicazione previsti sono stati soddisfatti – conferma di plausibilità.
Si tratta di definizioni apparentemente simili ma la cui differenza fondamentale riguarda la variabile temporale. Nel caso della verifica, il claim si riferisce al passato perché riguarda un elemento che può essere misurato e accertato. Nel caso della validazione invece fa riferimento al futuro e si basa quindi su logiche previsionali che però devono essere suffragate da proiezioni oggettive e misurabili.
“Va anche ricordato – precisa Pernigotti – che tutti i paesi europei hanno propri enti di accreditamento che tra loro effettuano tra controlli incrociati (Peer Evaluation). È così che il sistema di controllo nazionale viene accettato dagli altri paesi e quindi la verifica in Italia della Carbon Footprint di una azienda, anche piccola, è poi riconosciuta a tutti gli effetti anche all’estero”.
Il valore aggiunto di un’ etichetta trasparente
Nel mondo produttivo si sa che un’etichetta è in grado di fornire elementi di trasparenza e aggiungere valore al proprio prodotto. Oggi non esiste la definizione di “etichetta del carbonio”, ma Pernigotti evidenzia che l’informazione delle impronte (inclusa quella del carbonio) è definita nella ISO 14026. “La Carbon Footprint Italy che ho promosso personalmente a seguito delle richieste di alcuni verificatori in virtù del fatto che ero stato il coordinatore del gruppo internazionale ISO che ha sviluppato la norma sulla Carbon Footprint di prodotto, è il programma nazionale di comunicazione della Carbon Footprint. Rilascia marchi relativi al prodotto, le organizzazioni, la riduzione delle emissioni e di Carbon Neutrality e funge anche da registro di crediti di carbonio”.
Il principio di responsabilità dovrebbe sollecitare sempre più realtà ad adottare misure volontarie di riduzione della CO2 (prima dell’arrivo di norme cogenti), ma il primo passaggio, come evidenzia anche Pernigotti, è quello della conoscenza. Confrontarsi con una certificazione e con degli standard di gestione consente alle aziende di acquisire informazioni specifiche sulla propria attività ma anche sul proprio posizionamento all’interno dell’ecosistema produttivo. Il vantaggio competitivo non sta quindi nel millantare azioni false, ma nel conoscere precisamente limiti e potenzialità della propria realtà. Agire su questi temi è oggi una opportunità ma domani sarà una necessità e per Pernigotti “chi capirà per primo la necessità di attuare in azienda queste logiche potrà anche beneficiare dei vantaggi di mercato legati alla richiesta di clienti di riferimento, spesso già attivi in questi ambiti”.