L’Italia ha una storia forestale variegata e un presente ricco di opportunità. Oltre un terzo della penisola è ricoperto da boschi e foreste, fondamentali per mitigare gli effetti della crisi climatica, ma anche vittime della stessa crisi. Tra punti di forza e fragilità, il sistema forestale italiano sta vivendo una nuova stagione di gestione, con una consapevolezza rinnovata: la geografia delle nostre foreste è culturale e colturale. Ne parliamo con Alessandra Stefani, autorevole presidente del Cluster Italia Foresta Legno
L’Italia è ricoperta per oltre un terzo da boschi e foreste, che hanno storie e composizioni molto diverse fra loro. Un sistema forestale ricco di biodiversità, importante dal punto di vista naturalistico, ambientale, economico. Ma è anche un sistema fragile. Ci aiuta a capire meglio questa complessità?
È un sistema fragile sotto tanti punti di vista. Da un lato perché c’è dietro una storia importante e variegata. Una storia di contrazioni ed espansioni il cui esito è che tutto il nostro manto boschivo, salvo poche eccezioni, è il frutto del lavoro dell’uomo, da una parte, e dell’abbandono, dall’altra. È come se il sistema si fosse ampliato o ridotto, come una fisarmonica, a seconda della densità di popolazione che il territorio ha avuto, ma anche dell’utilizzo e dello sfruttamento di questi beni. Abbiamo avuto momenti di colonizzazione intensissima – pensiamo ad esempio all’Impero romano – seguiti da epoche in cui la copertura forestale era più estesa a causa delle ridotte attività umane. Epoche in cui il terreno agricolo veniva strappato alla foresta, con sforzo e lavoro (ad esempio in pendenze elevate), fino all’ultima industrializzazione, con migrazioni di popoli verso le pianure e le zone industriali, quando l’agricoltura di montagna è stata abbandonata e il bosco si è ripreso spontaneamente le aree forestali.
Oggi quasi il 40% è territorio forestale. Una parte è da tempo foresta – nelle zone più impervie, più lontane -, un’altra è stata “costruita” dall’uomo, in particolare tra le due guerre mondiali e nel secondo dopoguerra, sia per la produzione di legname sia per tenere ferme le pendici, perché già si conosceva bene il rapporto tra dissesto e assenza di foreste. La geografia delle foreste italiane è quindi una geografia culturale e colturale. È sì natura, ma una natura in cui il lavoro umano ha fatto tantissimo. Anche il non-lavoro ha contribuito enormemente, perché tanti territori che erano coltivazioni agricole sono poi tornati ad essere bosco. Questa è una delle principali ragioni per cui oggi c’è ancora una frammentazione delle proprietà così marcata. In montagna e in campagna i proprietari terrieri erano spesso coltivatori di una porzione piccola, quella che serviva a mantenere la famiglia. Adesso c’è il bosco e la proprietà è ancora la stessa ma la terra non serve più perché abbiamo un’altra struttura economica. Quindi la proprietà è estremamente frammentata.
La seconda fragilità che va evidenziata è quella legata alla crisi climatica, che vede nei boschi una delle risposte alle necessità di adattamento e mitigazione , ma occorre ricordare che ne sono anche loro vittime. Molte delle specie conosciute, adatte al clima di prima, ora si rivelano inadatte. L’esempio classico è quello dell’abete rosso, una specie che è stata piantata dappertutto, anche in territori dove non sarebbe cresciuto spontaneamente, ma nei quali comunque cresceva, dava risultati e ottimi prodotti. Oggi in tutta Europa, non solo in Italia, è la specie che più segna gli effetti della crisi climatica, perché le siccità lo rendono molto esposto agli attacchi fungini e degli insetti. Ma anche la grande piovosità concentrata è una minaccia per questa pianta, perché ha radici superficiali e casca con facilità se il terreno è fortemente imbibito d’acqua. Le conseguenze sono evidenti: le devastazioni come quelle che abbiamo visto dopo la tempesta Vaia nel nostro Nordest, a nord delle Alpi sono state registrate più e più volte con superfici interessate molto più ampie. E gli effetti del Bostrico, l’insetto che approfitta di questa situazione, sono ancora più estesi. Parliamo di fenomeni che a nord delle Alpi, negli ultimi 20-30 anni, sono ben conosciuti e che per la prima volta si affacciano con queste dimensioni e gravità anche a sud delle Alpi. L’altro effetto tipico del cambiamento climatico sono gli incendi, un fenomeno che recentemente si è affacciato in zone dove il fenomeno non era conosciuto o non con queste dimensioni, mentre nell’area mediterranea è considerato un disturbo cronico. Quello che stiamo vedendo dunque è un panorama che ci pone davanti a una duplice sfida: le foreste sono opportunità per tanti motivi, compresa la mitigazione della crisi climatica, ma richiedono una particolare attenzione.
In questo scenario si colloca la Strategia Forestale Nazionale, nata sia per colmare un vuoto di pianificazione ma anche per affrontare, appunto, la nuova emergenza del cambiamento climatico.
Esatto. La strategia è stata scritta per rispondere alla necessità di organizzare in un documento di politica forestale le prospettive per i prossimi venti anni: un tempo breve per le foreste ma lungo per le strategie nazionali. È stata redatta nel segno della multifunzionalità, ma anche in funzione degli equilibri globali. In Europa le foreste sono al centro dell’attenzione grazie alla Strategia europea, che si è incardinata nella Strategia europea 2030 per la biodiversità, e noi abbiamo fatto la nostra parte con la Strategia italiana, ma è anche vero che non possiamo solo occuparci di risparmiare le nostre foreste e poi rovinare quelle degli altri aumentando i tassi di deforestazione mondiale. L’UE ha calcolato che è stata responsabile del 16% della deforestazione mondiale, a causa dell’importazione di varie materie. Il primo motivo per cui le foreste – soprattutto tropicali – scompaiono non è tanto l’importazione e il taglio del bosco per ottenere legname. Il primo motivo è la sostituzione di produzioni forestali con agricoltura e pascolo. Sta emergendo anche l’evidenza dell’apertura di miniere, un tema che richiede attenzione a sé. Tutti abbiamo quindi l’obbligo di occuparci delle nostre foreste nazionali ma anche di quelle degli altri Paesi. Specie in Nazioni che hanno condizioni economiche di sussistenza e povertà, dove fanno fatica a pensare di risparmiare il polmone verde per ragioni di carattere internazionale, quando affrontano spaventosi problemi legati alla povertà.
Entriamo nel dettaglio della strategia. Com’è strutturata e quali sono gli elementi portanti?
Ci è voluto uno sforzo collettivo importante: a scrivere la strategia sono state 60 persone e l’unione di tante conoscenze, ed è stata posta in visione al pubblico, raccogliendone le osservazioni. La Strategia Forestale Nazionale è scritta in coerenza con quella europea ed è declinata sulla specificità italiana. Noi abbiamo un sistema forestale molto eterogeneo, come detto, con una biodiversità unica, da mantenere inalterata e se possibile aumentata. In questo contesto di valorizzazione del patrimonio forestale nazionale – inteso come un insieme di beni e opportunità – la strategia ha immaginato azioni e obiettivi di carattere sia generale che specifico. Gli obiettivi sono tre e sono disegnati per mantenere le foreste nel migliore stato possibile per le generazioni presenti e future. In un certo senso le leggi forestali e la strategia hanno anticipato quella che poi è diventata la modifica della Costituzione agli articoli 9 e 41, dove si sancisce che il patrimonio ambientale e culturale del nostro Paese serve per oggi ma serve anche per gli uomini e le donne di domani.
Dentro una mission generale, che è quella riportata all’inizio del testo, c’è una prima un’analisi SWOT sulla situazione delle foreste; poi sono indicati tre obiettivi e per ogni obiettivo sono declinate le rispettive azioni. Abbiamo cercato di non scrivere il “libro dei sogni”, ma piuttosto di tracciare traiettorie precise e indicare bene cosa possiamo fare, chi lo deve fare, in quali tempi e con quali risorse. I protagonisti sono senza dubbio gli enti pubblici e i proprietari – quando li conosciamo. Abbiamo quindi indicato i mezzi e gli strumenti reali per poter conseguire questi obiettivi. Alcuni sono definiti urgenti, da raggiungere entro 5 anni: è poco, lo sappiamo, perché le iniziative in campo forestale hanno tempi lunghi per mostrare i propri effetti. Poi sono indicati gli obiettivi di medio e lungo periodo, tempi “ più forestali”. La legge che ha previsto la redazione della Strategia inoltre, oltre a definirne l’orizzonte ventennale, ha disposto una revisione ogni 5 anni. Credo perciò che nel 2027 avvieremo una verifica sugli obiettivi, in particolare quelli urgenti, e sulle eventuali modifiche, dato che il contesto è estremamente mutevole e richiede una necessaria flessibilità.
Veniamo alle risorse. Per una strategia ventennale ne servono parecchie…
Prendendo atto che l’intervento pubblico, come abbiamo visto nel secolo scorso, non è più pensabile, quindi bisognerà far leva anche su risorse private. Per quanto riguarda le risorse pubbliche europee contiamo sicuramente sulla PAC e sul Fondo Sviluppo e Coesione. Non speravamo in fondi nazionali, invece grazie alla finanziaria 2022 sono arrivati fondi per i primi 10 anni della strategia forestale – parliamo di 420 milioni di euro in 10 anni – che sono per ora stati distribuiti alla Regioni per un primo biennio, poi per altri 3 anni. È una cifra consistente e duratura. Sono risorse destinate ovviamente alle Regioni, perché a loro spetta l’attuazione di alcune competenze , come la selvicoltura e la pianificazione. È stata comunque una scelta condivisa tra Stato e Regioni. Sono stati scelti 8 obiettivi prioritari tra quelli considerati urgenti. Il primo è, appunto, quello della pianificazione forestale. Infatti, solo il 15% delle foreste italiane ha un piano di organizzazione nel tempo e nello spazio delle attività forestali. Il Testo unico delle foreste e due decreti attuativi hanno elaborato le linee guida necessarie, in modo che – almeno a grandi linee – tutte le regioni agiscano nello stesso modo, per uniformare i dati e agevolarne l’inserimento nel SINFOR (Sistema Informativo Nazionale Forestale, ndr). Quest’ultimo era un altro degli obiettivi urgenti – avere una statistica forestale seria – ed è stato raggiunto. Il secondo obiettivo era creare il Cluster nazionale del legno e da un anno anche questo è realtà. Dunque, due tra gli obiettivi urgenti – SINFOR e Cluster – sono stati raggiunti.
Restiamo sul Cluster Italia Foresta Legno. Quale ruolo assume all’interno della strategia?
Il Cluster nazionale è pensato per favorire la nascita anzitutto dei cluster locali, i veri protagonisti delle azioni in sede locale. Ma anche per colmare alcuni vuoti, come quello del collegamento tra il sistema forestale e le imprese che si occupano di trasformare il legno. Oggi dipendiamo dalle importazioni e questo ha, tra i tanti difetti, quello di renderci vittime di chi decide i prezzi. Occorre ripartire dalla produzione locale, anche perché non ci mancano certo inventiva, creatività, design e competenze tecniche.
Un altro gap importante e strutturale è quello delle nuove tecnologie. Conosciamo benissimo il legno come materiale: siamo i migliori in Europa per quantità di materiale legnoso riciclato, siamo capaci di trattare le particelle in tutti i modi, di estrarre di tutto dal legno, di creare e riciclare. Ma le tecnologie sono in continua evoluzione, ci sono nuovi sistemi e strumenti sempre più performanti e sostenibili. Il mondo della ricerca va messo in contatto con il mondo delle imprese, industriali, artigiane e della manifattura. Proprio per questo il Cluster sta sempre in contatto con i territori, incentivando l’utilizzo del legno locale con le tecnologie adeguate. Noi mettiamo in comune esperienze, evidenziamo prospettive e possibilità, ma poi sono i territori a dover portare avanti le filiere, insieme alle associazioni di categoria – che sono presenti nel Cluster – e le università.
Il terzo pilastro fondamentale è quello della formazione professionale, da progettare insieme agli imprenditori per capire quali sono le nuove figure che servono alla manifattura. Faccio degli esempi: da un lato gli operatori forestali che tagliano devono sapere quale sarà l’uso finale. Ma anche le imprese di prima lavorazione – segherie e impianti – possono condurre un lavoro più fine per la tracciabilità e quindi incidere sul valore finale del prodotto.
Infine, l’ultimo pilastro su cui lavoriamo è quello delle catene di collaborazione. Puntiamo tantissimo sulle reti di impresa, anche nel settore forestale. La sfida è trovare i proprietari, metterli insieme e avere superfici tali da pianificare un’utilizzazione, che – ci tengo a sottolineare – non può essere mai priva di obiettivi di miglioramento. Ma che può tenere insieme esigenze produttive, di vario tipo, e vocazioni di conservazione. Le possibilità sono innumerevoli.
La parcellizzazione delle proprietà è uno dei temi più critici. Come si intercettano i proprietari?
Una risposta è quella dell’animazione territoriale, una strada già percorsa (Stefani è stata alla guida della Direzione generale dell’Economia montana e delle foreste, ndr) tramite bandi per cercare i proprietari e farli collaborare. Ad oggi i progetti finanziati sono stati circa 40, con buoni risultati. Altrettanto stanno facendo le Regioni. Siamo partiti dal dialogare con i proprietari che conosciamo già, ad esempio le Regioni che ospitano le foreste demaniali, che da sole rappresentano 800.000 ettari di bosco e possono ragionare in maniera coordinata sulle opportunità di sviluppo. Poi si prova a dialogare con le proprietà indivise, comunanze denominate in molti modi, proprietà collettive private ma, a norma di legge, vincolate ad un utilizzo pubblico. Sono proprietà estese, nel complesso, a circa 1 milione di ettari di superficie e possono contribuire a modificare di molto il panorama forestale italiano. Poi ci sono le proprietà comunali, che sono il 70% della proprietà pubblica in Italia. Occorre rendere consci i sindaci che sono proprietari di bosco e che hanno una possibile risorsa che devono gestire. UNCEM ci accompagna in questi progetti per trovare una prospettiva, anche economica, per i beni comunali, anche associandosi con i proprietari privati, ad esempio dando in concessione le foreste, se non si è in grado di gestirle direttamente. Ma anche invitando a unire i territori confinanti. Infine, occorre andare a “snidare” i proprietari silenti, cioè coloro che non sono nemmeno consapevoli di possedere un bosco, e trovare un modo per andare nella direzione di una gestione associata, mantenendo un diritto di proprietà. Le possibilità sono tante.
Quali sono le attività principali del Cluster in questo momento e su cosa si impegnerà nei prossimi mesi?
Per adesso siamo impegnati in un percorso di adesione e aggregazione, perché crediamo fortemente nella necessità del dialogo tra tutte le componenti del settore. Stiamo lavorando intensamente con il tavolo della bioeconomia presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e stiamo contribuendo alle Strategie Nazionali per la Bioeconomia, agli Action Plan per la bioeconomia e alla collaborazione con altri cluster – in particolare con i Cluster SPRING e MADE IN ITALY. Inoltre cerchiamo di evidenziare sul territorio le opportunità per stimolare le progettualità in sede locale, ricordando che ogni realtà è a sé. Infine stiamo lavorando, come accennavo prima, al tema della formazione professionale. Pensiamo ai ragazzi che si allontanano dalla manifattura ma avrebbero enormi possibilità di impieghi prestigiosi all’interno del sistema legno, con il legno italiano. Incontreremo il Ministero dell’Istruzione proprio a questo proposito, è una sfida che non vogliamo perdere.