Un paradosso nel quale siamo immersi, esposto a chiari numeri nell’ultimo rapporto ISPRA sui rifiuti speciali. Nelle quasi 600 pagine di cifre e sigle, ci sono le occasioni mancate ma anche le urgenze non più rinviabili per un territorio alle prese con il risanamento ambientale. Di fronte all’avanzare dell’economia circolare continuano a non esserci sufficienti impianti per gestire gli scarti e finiamo con spedirli all’estero. Ma la sfida ultima è quella di sganciare la creazione di valore aggiunto dalla produzione di rifiuti
La comunicazione dell’economia circolare: un punto debole da affrontare
L’economia circolare ha un punto debole enorme ed è di tipo comunicativo: quando si parla di rifiuti si parla sempre e soltanto di rifiuti urbani. Si ignorano quasi del tutto i rifiuti speciali – che in Italia sono 165 milioni di tonnellate, ovvero cinque volte gli urbani, “fermi” a 30 milioni – e si ignorano completamente i flussi di materia, fondamentali per governare la riconversione ecologica e duratura del nostro sistema produttivo.
Del resto che la comunicazione ambientale sia complessa e di difficile approccio è fuor di dubbio. Basta vedere il rapporto Ispra sui rifiuti speciali 2023: per fortuna infatti è stato reso disponibile solo in formato digitale visto che consta la bellezza di 583 pagine, una mole in grado da sola di tagliare automaticamente fuori dalla lettura il 99% della popolazione italiana. Proviamo allora a farne una sintesi, a partire proprio dal disaccoppiamento della crescita tra i rifiuti speciali – aumentati in un anno del 12,2%, ovvero +18 milioni di tonnellate dal 2020 al 2021 – e il PIL, fermo invece al +7%.
Crescita economica e produzione di rifiuti: un obiettivo fallito
Appare evidente come l’obiettivo di produrre meno rifiuti speciali sia fallito. Neppure il Covid è servito a dare una boccata d’ossigeno: si continua a produrre male (nel senso che si esitano troppi rifiuti per produrre i nostri beni) e manca un piano nazionale che tenti di governare questo trend, visto che l’ultimo documento che se ne occupava risale ormai al 2013.
Quanti rifiuti speciali produciamo
Va inoltre detto che tali numeri potrebbero essere sottostimati visto che il rapporto Ispra prende in esame solo i dati provenienti dai Modelli unici di dichiarazione ambientale (Mud) presentati dalle imprese, un obbligo dal quale sono però escluse quelle con meno di dieci dipendenti, ovvero larga parte del tessuto produttivo italiano. Digerita questa prima notizia, andiamo a “scorporare” i dati alla ricerca di altre informazioni interessanti.
I rifiuti speciali in Italia sono gestiti da oltre 10 mila impianti (5.928 sono situati al Nord, 1.899 al Centro e 2.936 al Sud). Si recupera materia dal 72,1% degli speciali e solo il 5,7% del totale gestito prevede lo smaltimento in discarica (10,2 milioni di tonnellate).
Tra i rifiuti speciali quelli non pericolosi sono pari a 145 milioni di tonnellate, il 93,5% del totale; mentre quelli pericolosi sono il restante 6,5%. In percentuale sembra quasi una notizia positiva, tradotto in tonnellate significa invece che abbiamo a che fare con 10,7 milioni di tonnellate di rifiuti che necessitano di una gestione particolare. Rifiuti non recuperabili come materia, che a loro volta provengono per almeno un terzo da attività di gestione di rifiuti e di risanamento ambientale. Del resto qualsiasi processo produttivo genera scarti, comprese le aziende di trattamento e riciclo di rifiuti.
Il problema degli inerti stoccati e inutilizzati
Tornando al dato generale, scopriamo che poco meno della metà del totale dei rifiuti speciali, ovvero il 47,7% proviene dalle attività di costruzione e demolizione. Un dato particolarmente significativo e difficilmente spiegabile con le sole operazioni di manutenzione ed efficientamento. Dunque ancora più preoccupante se si pensa a quanto è piccolo e montuoso il nostro Paese, che dovrebbe quindi essere a consumo di suolo zero. Tra l’altro anche il dato positivo collegato a questi numeri, ovvero il fatto che l’80% dei rifiuti da costruzione e demolizione verrebbe avviato a riciclo, è stato recentemente contestato da Legambiente nel Rapporto Cave: «Il dato riportato da Ispra – spiegano dall’associazione ambientalista – indica solamente che questi rifiuti sono passati, e quindi sono stati registrati, in un apposito impianto. Si tratta quindi di materiali recuperati ma poi stoccati senza alcun reimpiego effettivo.
Purtroppo la verità è che gran parte dei rifiuti da C&D non è dichiarata e viene ancora oggi abbandonata illegalmente sul territorio. Anche perché nelle statistiche ufficiali solo le imprese di una certa dimensione vengono incluse».
Rifiuti da costruzione e demolizione: un problema in crescita
Lo stesso allarme in effetti è stato lanciato anche nel corso di un convegno di settore che si è svolto in ottobre a Roma. «Chiediamo al Governo – ha detto Paolo Barberi, presidente Anpar, Associazione nazionale produttori di aggregati riciclati – di dettare linee guida destinate alle maggiori stazioni appaltanti pubbliche beneficiarie dei fondi del Pnrr (in particolare il gruppo Ferrovie) che incentivino l’utilizzo di questi materiali riciclati attraverso l’adozione di nuovo capitolati di appalto. Oggi non è possibile parlare di sostenibilità delle opere se nella progettazione e realizzazione si prescinde dall’uso prioritario degli aggregati riciclati ».
La causa principale di questo stallo è paradossale: secondo Anpar infatti dipende dalla «diffidenza ancora diffusa da parte delle stazioni appaltanti pubbliche» verso i materiali riciclati, nonostante possano essere utilmente re-impiegati soprattutto nei lavori stradali, in quelli ferroviari e portuali o aereoportuali. Una miopia ancora più assurda se si considerano altri due aspetti: uno di tipo economico, visto che lo stesso Pnrr prevede risorse per incentivare l’impiego di aggregati riciclati al posto di materie prime vergini, in primis per la realizzazione degli strati di fondazione e per i sottofondi o rilevati stradali. Il secondo aspetto è di carattere sociale ed educativo: le pubbliche amministrazioni sono le prime a dover dare il buon esempio e far vedere ai cittadini che vengono utilizzati materiali riciclati aiuterebbe a far capire l’importanza di fare anche anche a casa una buona raccolta differenziata e magari a preferire materiali riciclati quando si devono fare nuovi acquisti.
Da parte di Anpar e Nadeco (Associazione nazionale demolizione ed economia circolare per le costruzioni) tuttavia filtrava ottimismo riguardo i possibili benefici, che potrebbero arrivare dal nuovo Regolamento sull’End of waste di questi rifiuti (Dm 152/22), frutto di un dialogo col governo durato più di due anni per correggere le criticità iniziali.
I rifiuti da rifiuti
Al secondo posto per la produzione di rifiuti speciali, con 39 milioni di tonnellate, troviamo le attività di trattamento dei rifiuti e di risanamento (24,2%) che insieme alla depurazione delle acque costituiscono i cosiddetti “rifiuti da rifiuti”, ovvero gli scarti dell’economia circolare. Le attività di trattamento dei rifiuti sono di fatto le uniche a diminuire la loro produzione di rifiuti, mentre per esempio gli scarti della depurazione sono aumentati sia rispetto al 2020 (+6,2%) sia rispetto al pre-pandemia (+2,2% sul 2019). Questo dato da una parte evidenzia un’attenzione crescente del sistema industriale del contenimento degli impatti ambientali della depurazione, che va a intercettare sempre più materiale che non viene disperso.
Dall’altra parte però Ispra sottolinea che di fronte all’avanzamento dell’economia circolare, sul territorio nazionale continuano a non esserci sufficienti impianti per gestire proprio i suoi scarti. Purtroppo un altro primato del nostro Paese sembra proprio essere quello delle sindromi Nimby (acronimo che può essere tradotto in “non nel mio giardino”) e Nimto (non nel mio mandato elettorale): quando si parla di rifiuti infatti, tra la proposta di un impianto e la sua effettiva realizzazione passano decenni (quando va bene, perché la maggior parte delle volte decide non chi è deputato a decidere e a governare, ma chi urla di più, ovvero i comitati, grazie allo spauracchio del voto).
Il risultato è che nel 2021 l’Italia ha esportato 3,9 milioni di tonnellate di rifiuti speciali (+7,2% rispetto al 2020), i cui due terzi (64,3%) sono proprio scarti dell’economia circolare che non possiamo gestire per carenza di impianti. Infatti li abbiamo dovuti spedire, a caro prezzo, in Germania (21,3% di tutti i rifiuti speciali esportati, +1,8% sul 2020), Austria (12,6%, +14,1%) e Ungheria (8,6%, + 29,2%).
Gli impianti che mancano
Alcuni flussi di rifiuti soffrono la cronica mancanza di impianti, come quelli contenenti amianto (sempre meno, perché le bonifiche procedono a rilento a causa dei costi altissimi provocati proprio dalla mancanza di impianti di destino finale). Per quanto riguarda i fanghi di depurazione, in particolare industriali, il programma nazionale di gestione dei rifiuti ha individuato la necessità di implementare tecnologie di recupero anche di tipo energetico.
Siamo ancora lontani dall’obiettivo del recupero totale di veicoli fuori uso, mentre va rafforzata la raccolta degli pneumatici. Infine, un lavoro specifico andrà fatto sui rifiuti sanitari, dato che l’attuale normativa privilegia ancora molto lo smaltimento.
Le complessità autorizzative e le già citate sindromi rendono però difficile realizzare davvero tali impianti in una visione che sia a lungo termine, sostenibile e condivisa. Così il cerchio dell’economia circolare si chiude solo parzialmente.
Potenziare i sottoprodotti, il recupero e l’eco design
I numeri riportati e analizzati da Ispra rendono evidente la necessità di avviare un percorso che porti a sganciare la creazione di valore aggiunto dalla produzione di rifiuto. Lo evidenzia un recente studio elaborato da REF Ricerche, società indipendente che affianca aziende, istituzioni, organismi governativi nei processi conoscitivi e decisionali,dal titolo “La produzione di rifiuti cresce più del Pil: un confronto con l’Europa che conta”. «La produzione di rifiuti delle imprese – spiega il direttore di REF Ricerche Donato Berardi – cresce a ritmi superiori a quelli del PIL ed è più elevata di quella di Francia e Germania. Per ridurre le distanze dalle migliori esperienze europee è necessario potenziare i sottoprodotti, l’End of Waste e il recupero energetico».
Quest’ultimo, nonostante sia considerato preferibile alla discarica dalla gerarchia europea per la corretta gestione dei rifiuti, in Italia è ancora poco praticato e si continua a ricorrere in misura significativa alle discariche. Merita invece una riflessione a parte l’altro suggerimento che arriva da REF Ricerche sui sottoprodotti.
Il dilemma dei sottoprodotti in Italia: normative e incertezze
Ciò che secondo i ricercatori del think tank ha frenato lo sviluppo dei cosiddetti “sottoprodotti” va ascritto essenzialmente a un male storico tutto italiano, ovvero l’incertezza applicativa della normativa di riferimento. Un quadro che porta gli operatori a preferire la classificazione come rifiuti, anziché come sottoprodotti, sottoponendosi così a regole più stringenti e onerose, piuttosto che rischiare contenziosi con gli organismi preposti ai controlli, anche loro in balia delle ondivaghe interpretazioni normative. Un aiuto in tal senso potrebbe forse venire dalle riforme previste dal PNRR per il settore dei rifiuti, vale a dire il PNGR e la SNEC (Strategia Nazionale per l’Economia Circolare), che contengono diverse indicazioni utili.
Nel cronoprogramma di attuazione delle misure della SNEC, per esempio, si inseriscono i progetti di simbiosi industriale così come l’utilizzo di strumenti normativi e finanziari per sostenerli. «Del resto la simbiosi industriale – si legge ancora nello studio di REF Ricerche – costituisce uno dei pilastri della SNEC, relativamente alla trasformazione dei modelli produttivi, oltre ad una serie di azioni da traguardare al 2035, tra le quali si hanno la previsione di semplificazione delle autorizzazioni e l’inserimento dei distretti circolari nelle linee guida di settore. La simbiosi industriale è stata anche richiamata nel verbale della riunione di insediamento dell’Osservatorio per l’Economia Circolare, riunitosi lo scorso dicembre 2022, così come è stata inserita nella sua proposta di programmazione».
Eco Design: ridurre i rifiuti alla fonte
Infine le soluzioni passano dalla cosa più ovvia di tutte: ridurre la produzione di rifiuti – siano essi di origine urbana o speciale – attraverso un’inversione culturale, che è l’eco design: ovvero chi produce un bene dovrebbe pensare fin dall’inizio alla gestione di quel bene uno volta che finirà la sua funzione primaria e diventerà rifiuto.