La gestione dei rifiuti rivela le carenze strutturali e l’incapacità di visione a lungo termine del nostro Paese. Eppure alcuni dati sono incoraggianti – come la percentuale di raccolta differenziata – e altri, come il grado di circolarità dell’economia italiana, stimato al 21,6%, mostrano una strada già tracciata che va percorsa con più coraggio. A oltre due anni dall’approvazione del Programma nazionale per la strategia dei rifiuti ecco un quadro sugli scarti urbani e speciali a partire dal rapporto dell’Ispra.
A due anni e mezzo dall’approvazione da parte del Ministero per la Transizione ecologica del Programma nazionale per la strategia dei rifiuti (PNGR) e della Strategia nazionale per l’economia circolare, il bilancio è impietoso: tra i timidissimi progressi da mettere nei risultati raggiunti c’è per esempio la percentuale di raccolta differenziata che ha finalmente superato il 65%. Per il resto ci sono solo fallimenti, a partire dalle solite criticità strutturali (carenze impiantistiche) e dall’incapacità di declinare le previsioni del PNGR a livello regionale.
PNGR: un piano sulla carta?
Eppure l’obiettivo principale del PNGR, quando ancora l’autonomia differenziata sembrava solo uno spauracchio lontano, era proprio quello di indirizzare la pianificazione regionale della gestione dei rifiuti, in particolar modo per quelle regioni – la quasi totalità – che nel 2022 smaltivano in discarica più del 10% dei rifiuti urbani, ovvero la quota massima individuata dall’Ue per il 2035.
In realtà neppure questo obiettivo minimo è stato minimamente raggiunto e anzi nella maggior parte dei casi non siamo neppure ancora alle premesse. Infatti, il PNGR indicava la necessità di adottare a livello regionale pianificazioni basate su una attenta quantificazione dei flussi dei rifiuti, sia urbani che speciali, per tutte le tipologie di rifiuto. L’analisi dei flussi di produzione e gestione dei rifiuti doveva essere quindi l’elemento di base da cui avrebbe dovuto prendere avvio la pianificazione regionale, alla quale applicare l’analisi Lca (Life Cycle Assessment), non obbligatoria ma ritenuta «importante e altamente auspicata». Questo tipo di analisi infatti permetterebbe, tra le altre cose, di stimare il gap impiantistico e formulare scenari alternativi di evoluzione del sistema per tutte le tipologie di rifiuti.
I rifiuti urbani
Nell’ambito dei rifiuti urbani quello che possiamo evidenziare come positivo è sicuramente il superamento nel 2022, in Italia, del 65% di raccolta differenziata: una prima volta per il nostro Paese. È vero che il raggiungimento di tale obiettivo di legge era previsto esattamente 10 anni prima, ma si tratta comunque di un’accelerazione importante, che si sposa con un altro dato altamente positivo, ovvero il calo nella produzione di rifiuti urbani – 29,1 mln di ton in totale, -1,8% sull’anno precedente – che è stato conseguito mentre al contempo sono cresciuti il Pil (+3,7%) e i consumi delle famiglie (+6,1%).

Merito del PNGR?
Quasi sicuramente no, perché questi “record” sono stati registrati nel 2022 su dati del 2021 e quindi se vogliamo essere onesti dovremmo ascrivere questi risultati all’antenato della strategia, ovvero a quel documento Verso un modello di economia circolare per l’Italia varato nel 2017 che definiva «i nuovi strumenti amministrativi e fiscali per potenziare il mercato delle materie prime seconde, affinché siano competitive in termini di disponibilità, prestazioni e costi rispetto alle materie prime vergini». A tal fine, il documento agiva «sulla catena di acquisto dei materiali, sui criteri per la cessazione della qualifica di rifiuto (End of Waste), sulla responsabilità estesa del produttore e sul ruolo del consumatore, sulla diffusione di pratiche di condivisione e di “prodotto come servizio”».
Rapporto Ispra sui rifiuti
Il consueto rapporto Ispra sui rifiuti è la fotografia migliore da cui partire per un’analisi puntuale. Guardando alle principali forme di gestione, i rifiuti urbani vengono avviati per il 52% a recupero di materia (per il 23% si tratta di frazione organica, 29% il resto), il 18% è incenerito e il 17,8% smaltito in discarica. Si tratta dunque di performance molto distanti rispetto a quelle richieste dai nuovi obiettivi europei che non guardano alla sola percentuale quantitativa di raccolta differenziata (l’unico dato peraltro fornito da qualsiasi sindaco), ma all’effettivo riciclo. Come ricorda Ispra lo smaltimento in discarica nei prossimi 15 anni dovrà essere quasi dimezzato (10% entro il 2035). Mentre la percentuale di rifiuti da avviare ad operazioni di recupero di materia dovrà essere notevolmente aumentata per garantire il raggiungimento del 60% di riciclaggio al 2030 e del 65% al 2035.
Ad oggi invece la percentuale di riciclo dei rifiuti urbani si attesta al 49,2% (+1,1%), ovvero al di sotto del 50% che avremmo dovuto già raggiungere nel 2020 per rispettare la normativa di settore. Non solo, e questo è forse il dato più preoccupante: continua ad allargarsi la forbice tra raccolta differenziata e riciclo, a riprova del fatto che, evidenzia Ispra, la raccolta è sì importante ma non basta. Infatti, oltre a essere svolta regolarmente deve essere anche di alta qualità per poter essere avviata a riciclo. Inoltre, senza impianti di gestione quel materiale non ha comunque un futuro. Su entrambi i fattori siamo ancora indietro.
La cronica mancanza di impianti
La dotazione impiantistica riveste un ruolo fondamentale anche secondo la strategia europea del Green deal: da sola l’economia circolare pesa infatti per oltre il 50% sul “gap” che ci separa dal raggiungimento dell’obiettivo di mantenimento della temperatura non oltre un aumento dell’1,5 °C. Il perché è semplice: basta osservare alcune delle principali filiere industriali: la produzione di acciaio da riciclo del rottame di ferro consente di risparmiare fino al 38% delle emissioni di gas serra. Nel caso del riciclo dell’alluminio si arriva fino al -80% rispetto all’impiego di materie prime vergini, e in quello della plastica si tocca il -90%.
Life cycle assessment
Ad oggi il grado di circolarità dell’economia italiana è stimato al 21,6%, calcolato utilizzando il metodo del Life cycle assessment (Lca) e nel considerare dunque tutte le fasi chiave della vita di un prodotto o servizio: acquisto, produzione, logistica, vendita, uso e fine vita. In quest’ottica, è evidente che la gestione dei rifiuti non esaurisce in sé le politiche per l’economia circolare, ma ne rappresenta comunque una parte fondamentale. È qui che si inseriva il varo del PNGR, approvato – come la Strategia – a valle di una fase di consultazione pubblica. La prima fase prevista dal PNGR era appunto la stesura di Piani regionali di gestione rifiuti che dovevano essere comunicati al Mite (allora Ministero della Transizione Ecologica, ndr) e che come abbiamo visto, nella maggior parte dei casi non sono stati ancora approvati.
Anche per quel che riguarda le indicazioni di dettaglio sui target di riciclo per le frazioni di rifiuti particolarmente critiche, non ci sono stati grandi passi avanti. Prendiamo ad esempio la plastica, forse il caso più emblematico. Il PNGR afferma nel merito che «solo il 48,7% degli imballaggi in plastica è riciclato» (e in base alla nuova metodologia di calcolo ci fermeremmo al 41,1%). Sottolinea inoltre che una quota consistente del rifiuto prodotto dal pretrattamento della raccolta differenziata presso le piattaforme di selezione «è costituita da plasmix (oltre il 40%), attualmente destinato a smaltimento o a recupero di energia».
Che fare dunque?
«Gli scarti di selezione (plasmix) trovano scarso utilizzo ai fini del riciclaggio meccanico, per mancanza di tecnologie adeguate (con poche virtuose eccezioni, con 3-4 impianti in Italia in grado di riciclare almeno la componente poliolefinica del plasmix, ndr). Una delle soluzioni indicate è quella di sviluppare e realizzare impianti con nuove tecnologie di riciclaggio delle frazioni di scarto (ad esempio, mediante processi di riciclo chimico proprio per le frazioni non riciclabili meccanicamente e quindi destinate a discarica o termovalorizzazione)», ma per il momento gli impianti di questo genere sono fermi alla fase progettuale o arenati nella sabbie mobili del contenzioso politico.
Rifiuti speciali? Paghiamo sempre
Veniamo ora all’altro grande elemento che misura il rapporto del sistema paese con i rifiuti, ovvero i rifiuti speciali. Nel 23esimo aggiornamento del Rapporto sui rifiuti speciali, pubblicato il 24 luglio scorso, l’Ispra evidenzia una riduzione (-2,1%) di quelli generati dall’Italia nel 2022 a fronte di un aumento del Pil del 4%. Le buone notizie però – dando per scontato che l’obiettivo sia una generale diminuzione dei rifiuti prodotti – finiscono qui. Stiamo infatti parlando di 161,4 milioni di tonnellate (il 93,8% sono rifiuti non pericolosi) che rappresentano comunque oltre il quintuplo rispetto all’ammontare di rifiuti urbani generati nello stesso anno e che devono essere letti attraverso il piano nazionale in vigore dal 2013, visto che i successivi aggiornamenti non hanno mai visto la luce.
Guardando alla generazione di rifiuti speciali per attività economica (Ateco 2007), il 50% del totale – 80,8 mln ton – arriva dal settore delle costruzioni e demolizioni, seguito dalle attività di trattamento dei rifiuti e di risanamento (22,8%, pari a 36,8 mln ton) e dalle attività manifatturiere (17,5%).
Rifiuti da rifiuti
Suddividendo i dati dei rifiuti speciali in base all’Elenco europeo dei rifiuti (Eer) si amplia ancora la fetta di provenienza dagli scarti dell’economia circolare, ovvero i cosiddetti “rifiuti da rifiuti”: il 26% del totale prodotto rientra infatti nel capitolo 19, comprendente i rifiuti prodotti dagli impianti di trattamento dei rifiuti e delle acque reflue e da quelli di potabilizzazione dell’acqua e della sua preparazione per uso industriale (42 mln ton).
Il rapporto Ispra scende poi nel dettaglio delle modalità di gestione, attraverso 10.806 impianti industriali – in lieve crescita da un biennio – diffusi in modo disomogeneo lungo la penisola, di cui 5.905 al Nord, 1.952 al Centro e 2.949 al Sud. I quantitativi di rifiuti speciali complessivamente gestiti nel 2022 in Italia sono pari a 176,6 milioni di tonnellate, con un 72% che va a recupero di materia (ma solo perché non esiste un dato certo per i rifiuti da costruzione e demolizione, che vantano un 80% di riciclo che in realtà è tutto da dimostrare e al momento indimostrabile).
Interessante anche la fotografia delle operazioni transfrontaliere: in Italia vengono importate circa 6,9 mln di ton a fronte di un’esportazione di poco superiore a 4,8 mln ton, ma di natura molto diversa tra loro. Importiamo (pagando) prevalentemente rottami metallici provenienti dalla Germania (1,7 milioni di tonnellate) e dalla Francia (399 mila tonnellate di rifiuti), recuperati dalle industrie metallurgiche localizzate in Lombardia e in Friuli Venezia Giulia, mentre dalla Svizzera provengono 429 mila tonnellate di terre e rocce destinate per la quasi totalità in Lombardia in attività di recupero ambientale.
I rifiuti che esportiamo (pagando) sono invece gli scarti dell’economia circolare che non sappiamo, o meglio non vogliamo gestire, ad esempio attraverso impianti di riciclo chimico o di termovalorizzazione: con un aumento impressionante di circa il 24%. In ogni caso paghiamo sempre.